Tra parola e società: quella insopportabile pesantezza dell'essere
di
Gian
Stefano Mandrino
"Dalla
parola alla società", cita pomposamente il sottotitolo
di questo sito sperimentale, come se sapessimo cosa siano la parola
e la società.
Moltissime cose
non conosco, le più e le più importanti, ma "società"
e "parola", assieme a "numero" e "realtà",
da anni attendono fuori, nella sala d'aspetto del mio intelletto.
Quando penso
alla società, chissà perché, immagino una persona
del mio condominio, a cui debbo spiegare sempre, ad ogni incontro,
il mio mestiere. Penso anche a quella moltitudine di gente, là,
nel centro cittadino durante lo "struscio" del fine settimana,
agli svincoli delle tangenziali di notte, alle spiagge estive, alle
code autostradali, ai vecchi stipati negli ospizi, agli operai del
primo turno, ai miei insegnanti, a chi parla solo di sé,
come non fosse davanti a me ma ad uno specchio, ai bimbi che in
Africa muoiono di AIDS, alla prosopopea di chi sta dall'altra parte
di uno sportello: curioso, no! Vado con la memoria a quelle espressioni
false, caratterizzate tutte dall'identico sorrisetto da circostanza,
di chi mi chiede "ma fammi capire come funziona il tuo lavoro"
(da leggersi: "brutto idiota come fai a vivere di qualcosa
che non vogliamo capire, perché è insopportabile che
sia successo a te e non a noi, e per invidia ci rodiamo fino al
midollo").
A questo punto
avrei molte definizioni di società: "quelli che ce ne
sempre uno che ti rompe le uova nel paniere", "quelli
che me li sono trovati mica li ho potuti scegliere", "quelli
che si fanno sempre e solo i fatti propri e si lamentano quando
gli altri fanno come loro", "quelli che non si sono fermati
quando ho chiesto aiuto in autostrada", "quelle che si
tengono la borsetta per paura che gliela scippi mentre passi con
la bici, dal sinistro rumore di macinino", "quelle che
siccome sei un uomo fai schifo a priori, perché sei condannato
a guardare solo i posteriori", "quelli che anche se c'è
posto da parcheggiare un autotreno mettono l'auto in doppia fila
o sul marciapiede: perché il cappuccino è sacro e
gli altri non esistono", "quelli che tu sei solo e sempre
un peccatore o un evasore o un affamatore di popolo", "quelli
che così pago meno tasse, ma gli ospedali non funzionano".
Ho scoperto
che la società non esiste: è un pericoloso, precario
e scomodo equilibrio, è un compromesso tra gli interessi
di una specie e gli egoismi dei singoli appartenenti alla stessa.
Consideriamo
ora la prima parte del motto del sito: la parola. Se collocare il
concetto di società da qualche parte nella mia mente mi pare
difficile, ancor più quello di "parola". Mi ricordo
la prima volta che ho desiderato invitare (spinto da chissà
quali istinti primordiali) una mia compagna di liceo a degustare
un gelato (notate come sia molto fine sottolineare tale "background"
scolastico, assolutamente inutile alla mia vita se non come monolitico
ostacolo) . Era sabato mattina, era terminata l'ultima ora di lezione.
Lei, alta, forse un poco cavallina, ma dicevo a me stesso "longilinea",
incredibilmente lenta nel riordinare e chiudere la sua cartella,
occupava un banco al fondo della classe. Mi avvicino e, a causa
della mia balbuzie, unica vera compagna della mia vita (c'è
sempre nei momenti decisivi), mi esce dalle labbra solo un "ciao",
anticipatore di una vergognosa fuga. Le altre, intendo le parole
che non ero riuscito a "parlare", le porto ancora con
me, strozzate come un'ernia sentimentale, soffocata sul nascere
da un mal funzionamento che con un sol moto era riuscito a rompere
quel "dolce-falso" equilibrio tra l'egoismo di specie
e l'esigenza adolescenziale di espletare quel qualcosa sospeso tra
cuore ed epididimo.
Ho capito quanto
triste e crudele poteva essere la corrispondenza tra parola e società:
una tavola su cui tenersi in equilibrio tra quello che vorresti
e che gli altri si aspettano da te o ti permettono. Per tutta la
vita ho potuto parlare miliardi di parole (per un balbuziente è
facile arrivare a quantità notevoli) ma sono state capite
solo quelle, il cui destino coincideva con le aspettative di un
equilibrio tra le necessità di una entità corporea
e gli altrui egoismi. Ho capito presto che quando "parlavo"
ciò che il cuore o la mente mi suggerivano, senza modulare
sull'onda del convenuto, non dicevo nulla di comprensibile all'esterno
della mia bocca.
Hanno iniziato,
come successo al matto di De André, a bollarmi come "buono"
ma "un po' strano"; in qualità di direttore, chissà
perché, sono per tutti un "dottore", se non "professore",
per alcuni obbligatoriamente legato a qualche ateneo, come se al
di fuori delle università non si potesse, per decreto, fare
funzionare il cervello.
Una sera ero
a cena con papà e mamma. Non avevo più di sette anni.
Mi parve e capii di essere a tavola con due scheletri ricoperti
di pelle, altro che papà e mamma. Altre due parole che iniziavano
a vacillare nella loro certezza, così come nessuno, al liceo,
era riuscito a spiegarmi perché dopo il due ci fosse il tre.
(Si rende noto che il liceo era gestito da un ordine religioso ed
al tempo non ci si stupefaceva come ora, al massimo qualche gomma
da masticare). Comunque ero già stupefatto di mio...
Ho imparato
che parlare sull'esistenza è difficile quanto parlare dell'esistenza
stessa, chiedendomi se un giorno avessi potuto trovare un verbo
migliore di "essere" e qualcuno a cui ciò potesse
apparire più vero del reale.
Caro Adso da
Melk, forse hai ragione tu: "Stat rosa pristine nomine, nomina
nuda tenemus".